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Relazione tossica

 

   Siamo a Milano, in una mattina presumibilmente calda del 1878, precisamente il 10 giugno. Il Regno d’Italia è nato da neanche trent’anni e ha da fare decisamente molto per rivendicare il suo ruolo in Europa: in gran parte è ancora a regime rurale, oltre che in condizioni di forte arretratezza economica rispetto ad altre nazioni.

Milano però è fra le poche città in forte industrializzazione, è molto attiva anche culturalmente e, come spesso accade nei centri di maggior benessere economico, anche dal punto di vista artistico rappresenta una delle realtà più vivaci del Paese.

Da più di un decennio, da qui si è propagata in tutta l’Italia settentrionale e poi nel resto della penisola la cosiddetta Scapigliatura, un movimento artistico che s’interessa molto a quel confine labile che sussiste fra realtà esteriore e dimensione psichica. La ricerca è la conseguenza di una crisi profonda della cultura tradizionale di stampo borghese, a cui gli Scapigliati rispondono contrapponendo immagini che ovviamente nulla hanno a che vedere con il gusto imperante. Il risultato, fortemente anticonformista e antiaccademico, produce opere evanescenti, languide, per nulla simili alla produzione romantica italiana (alla Hayez, per intendersi) e piuttosto inclini a un dissolvimento di forme e contorni; confini abbattuti che lasciano margini molto ampi d’interpretazione.

Quel 10 giugno uno degli artisti più rappresentativi del movimento sta dipingendo nel suo studio in via Solferino: si chiama Tranquillo Cremona, ha 41 anni e sta ultimando quella che forse è la sua opera più conosciuta. Il titolo che sceglie è L’edera e rappresenta due figure, probabilmente sua cognata Lisetta Cagnoli e il musicista Alfredo Catalani, strette in un abbraccio torbido la cui natura non è chiara, volutamente. Perfino la pelle di lui, quasi femminile, apre all’ambiguità quando accostata ai baffi e all’abito da uomo.
Per Cremona lo sfaldamento dei contorni non è tanto una questione di stile (ehi, non è mai solo una questione di stile!), quanto una posizione di aperto contrasto verso il perbenismo borghese, la pittura accademica, il moderatismo immobile della cultura italiana (spoiler: aveva ragione).

Da qualche giorno però l’artista non sta molto bene: è provato da certi dolori al basso ventre che si manifestano sempre più forti. Ma il dipinto è quasi finito, figuriamoci se si può sospenderlo lì; che vuoi che sia, sono solo fitte e qui mancano pochi tocchi, vorrà dire che dopo rimango un po’ di più in bagno, magari faccio un riposino e passerà tutto.

E invece Tranquillo Cremona quella mattina muore.

Gli verrà diagnosticata la paralisi degli intestini a causa di un’intossicazione da piombo, avvenuta probabilmente per via cutanea.
Inconsapevole della composizione chimica dei pigmenti e dei processi fisiologici di penetrazione dei metalli pesanti nel sangue, il pittore soleva intervenire nelle rifiniture dei dipinti direttamente con le dita, ma soprattuto si stemperava i colori a olio sulla pelle dei polsi per confrontarli con l’incarnato.

La cosa inquietante è che il fatto che alcuni colori siano tossici se ne sa fin dall’antichità, almeno da quando Ippocrate, nel 370 a.C., fu il primo a riconoscere la colica avvelenante da piombo; e così nel suo celeberrimo Libro dell’arte Cennino Cennini scrive a proposito dell’orpimento (un color giallo aranciato ricavato dal solfuro di arsenico):

Questo tal colore è artificiato e fatto d’archimia, ed è proprio tosco (tossico)[…]

guardati da imbrattartene la bocca, che non ne riceva danno la persona,

e Cennini questo libro lo scrive alla fine del 1300.
Ma come l’orpimento si ricordano anche il realgar, i rossi ricavati da cadmio, da piombo e da mercurio, i verdi dall’arsenico e poi molte altre sostanze altamente tossiche che sono finite sulle tavolozze dei pittori. Un esempio su tutti: il verde di Parigi, una particolare tonalità smeraldo dell’omonimo colore, certo molto bella e intensa, si chiama così perché una volta scoperto il suo potenziale letale venne utilizzato per derattizzare le fogne della capitale francese, per dire.
E quindi, al netto della consapevolezza o meno di tanti artisti circa la pericolosità delle sostanze che usavano e della necessità di usarle per il loro stesso sostentamento, perché ignorare l’eventualità di effetti nefasti?

Una possibilità interpretativa ce la fornisce Candido Portinari, uno dei principali pittori brasiliani del Novecento: quando i suoi medici gli consigliarono di smettere di utilizzare le vernici con cui realizzava i suoi murales, per non aggravare le patologie che lo avrebbero condotto alla morte nel 1962, commentò in proposito: “Mi vietano di vivere”.

Dalla lezione “Arte e tossicologia” tenuta il 19 dicembre 2023 alla Facoltà di Farmacia dell’Università degli Studi di Milano (la Statale), su invito della Prof.ssa Barbara Viviani.

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