Arte e immagini

Potere del segno

 

Sul profilo di Leomacs stiamo parlando di una tavola di una bellezza abbacinante. Si tratta di Il cadavere sull’Imjin!, tratto da Two-fisted Tales n. 25 (gennaio-febbraio 1952), della E.C. Comics, realizzata da quel gigante di Harvey Kurtzman, lo stesso che fonderà dopo qualche anno la rivista Mad.

C’è un tale concentrato di sapienza, in questa tavola, che andrebbe affissa in tutte le scuole di fumetto, per far capire quali siano le potenzialità di questo linguaggio; quale sia la differenza fra “bel disegno” e “disegno funzionale a”; e soprattutto cosa implichi l’esprimersi con un disegno non accademico (mi riferisco ai rischi, nella presunzione di atteggiarsi da artisti, di fare delle ciofeche tremende se si è privi di un bagaglio di consapevolezza e di mestiere). Certo, sono passati settant’anni e le didascalie oggi probabilmente non ci sarebbero, o avrebbero un testo diverso. Un testo che non risultasse pleonastico nel ripetere quel che è già mostrato (e come!) dal disegno, e che magari integrasse con diversi pensieri l’azione in corso, rendendola, se possibile, ancor più inquietante. Ma in quegli anni era normale a qualsiasi latitudine, per cui non va letto come un difetto, anzi.

C’è una regia tutto sommato semplice: il campo visivo si avvicina su due corpi, mentre uno affoga l’altro in un fiume; nella prima striscia vediamo un’alternanza di posture di quello che riesce a sopraffare l’altro (chiamiamolo A): la prima vignetta sembra una lotta pari, ma già nella seconda si percepisce lo sforzo, la pressione verso il basso, che quello sott’acqua (chiamiamolo B) prova a contrastare. Nelle due vignette successive l’alternanza si ripete: A si ridistende un attimo in alto, un po’ per prendere fiato, un po’ per sfuggire alle mani di B che prova disperatamente a scrollarselo di dosso, ma nella quarta vignetta la spinta in basso è totale e definitiva, come suggeriscono le linee verticali delle quattro braccia e di quel collo, così innaturalmente allungato all’ingiù, a ribadire lo sforzo. È il climax.

Nella seconda striscia il punto di vista si avvicina ancora, per mostrare il dettaglio delle bolle d’aria che pian piano svaniscono, ma soprattutto per sprofondare il lettore in quel passaggio da un campo a tinte fosche a un baratro nero.

La terza striscia, ad azione conclusa, è una zoomata all’indietro, che mostra la presa di coscienza di A e la sua fuga, ormai ridotto a poco più che un grumo di china.

Ciò che è sconvolgente è la potenza di un segno che con pochissimi tratti evoca una lotta, una disperazione, uno sforzo pazzeschi; quelli che di norma vengono letti come contorni che delimitano corpi, come linee che compongono un disegno, sono qui trasformati in linee di forza pure, in gesti, in intenzioni.

Che capolavoro.

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