Quando mi capita di visitare un museo sono doppiamente emozionato: un po’ perché posso finalmente vedere dal vivo opere che conosco, ma ancor di più perché ho modo di scoprirne di nuove, spesso di artisti a me sconosciuti, che sono la maggior parte. Spesso, per qualche motivo, ce ne sono alcune che catalizzano la mia attenzione in modo particolare, e mi costringono a rimanere lì, bloccato, a leggerne gli elementi, a studiarle. No, niente esagerazioni tipo sindrome di Stendhal; sono troppo orco per questa roba. Solo e semplicemente un coinvolgimento intellettivo, estetico, emotivo.

Fra le diverse che al Reina Sofia di Madrid mi hanno davvero costretto a piantarmi lì, davanti a loro, c’è questo dipinto. S’intitola Jardí d’Aranjuez. Glorieta II ed è stato realizzato da un certo Santiago Rusiñol, che non avevo mai neanche sentito nominare, ma che al mio ritorno a casa ho scoperto essere stato un pittore catalano attivo fra Otto e Novecento, specializzato in giardini, e che ebbe anche una certa influenza su Picasso.
Ora, premetto che in genere i quadri di fiori non sono proprio il mio soggetto preferito. Eppure questo mi si è incollato addosso, tanto da continuare a rimuginarci.
Forse perché, abbastanza banalmente, per com’è costruito mi ha fatto pensare alla morte.
Ha un impianto molto solido – anche troppo – con una composizione simmetrica data dall’orizzonte a metà dell’altezza, e l’asse centrale sottolineato dal sentiero e dalla porta. Questo ferma la scena in una stasi silenziosa, quasi ieratica, amplificata dalla totale assenza di persone o animali. Quello che però mi ha colpito è la luce: è una luce marcia, umida, pesante; la stessa di quando il cielo si addensa di nuvoloni neri subito prima di un temporale, e nella quale solo i colori saturi, come quelli dei fiori, risaltano in modo spettrale.
Quella porta, poi. La porta è da sempre, oltre che un varco, un simbolo di passaggio verso l’aldilà. È lì che casca l’occhio; perché quell’arco ogivale ci aspetta, sereno, oltre le umane passioni, che si dissolvono in quelle pennellate verticali.
In questo caso, il fatto che sia ricavata da una massa così scura fa pensare a cosa ci lasciamo dietro: la vita, simboleggiata dai colori che ci affiancano per tutto il sentiero, ma che, al di là del varco, lasciano il posto a quella massa buia.
Infine, quell’alberello lì, sul praticello a destra. La sua funzione compositiva è quella di controbilanciare il cespuglio chiaro a sinistra; eppure, a guardare bene, è l’unico elemento in movimento. A lui è affidato il compito di farci percepire una refola di vento gelido. Quella che anticiperà di un secondo il passaggio definitivo di ciascuno di noi.

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