Titti

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Ritratto di Titti, 2024. Matite Staedtler su carta Clairefontaine Medium fine, cm 21 x 29,7

Questa serie di ritratti fa parte di Addio merdaiolo, l’artbook che ho dedicato alla saga cinematografica di Amici miei. Dalla mia introduzione all’artbook: 
“Si dirà: – Eh, ti piace vincere facile.
Non è così scontato: la trilogia di Amici miei è un cult con molti detrattori. Sì, lo so, pare inverosimile anche a me, eppure sono in tanti a darne un giudizio negativo per i più vari motivi: la crudeltà di alcune gag, la misoginia, il compiacimento di situazioni che oggi qualcuno definirebbe politicamente scorrette e così via. Ognuno è libero di pensarla come vuole, com’è normale che sia, ed è probabile che il disturbo dei detrattori sia dovuto al compiacimento che molti mostrano verso le situazioni suddette, magari verso certe frasi o battute entrate così a fondo nell’immaginario del pubblico da essere ripetute in svariate occasioni e, infine, diventate tormentoni di uso comune. O semplicemente perché quei film li trovano insulsi e fine del discorso.
Per quanto riguarda me, dopo non so più quante visioni – almeno dei primi due atti – non sono più neanche quelle frasi o quelle battute a deliziarmi, ma la qualità delle sfumature che implicano realtà, gli atteggiamenti che permettono d’immaginarsi altre situazioni e che costruiscono interi mondi, il non detto che descrive i caratteri personali e i rapporti fra quei cinque sciagurati. È il modo in cui sono pensate e realizzate quelle sequenze che catturano la mia attenzione e nelle quali scopro ogni volta qualche dettaglio nuovo, o che non ricordavo, che mi manda in sollucchero.
Ed è questo che mi frega. Perché mentre mi concentro su quei passaggi mi appassiono e mi diverto per il modo in cui si dipanano, e alla fine rimango fregato da quei due finali, pur conoscendoli bene. Ora, lo ammetto: al cinema non mi commuovo mai. Non che me ne vanti, mi succede così, e non ci sono Incompreso, Hachiko o Dancer in the dark che tengano: per quanto professionisti dell’estrazione di lacrime concepiscano opere progettate per drenarne a ettolitri, io le guardo, pur coinvolto emotivamente, ma non riesco ad andare oltre alla qualità della messinscena.
E invece quei due finali lì, con il gruppo di amici che non rinuncia a trasformare in gioco anche la tragedia in una gestione equilibratissima di più registri, mescolando le lacrime del pianto e del riso, mi fanno venire il magone ogni volta.
E così, per farmelo passare, devo andare a cercare compresse di cefalo.”

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